L'Aquila:
com'è e come sarà

Le proposte di Mons. Orlando Antonini,
nunzio apostolico in Serbia,
per la ricostruzione della città*

 

30 marzo 2011. - Circa il tema dell’incontro odierno – L’Aquila com’è, come sarà – mi riferirò esclusivamente all’Aquila antica contenuta entro le Mura Urbiche.

Circa la sua ricostruzione, come già da me espresso in vari articoli e saggi, mi confermo nella convinzione che la formula impostasi all’indomani dell’ultimo sisma – “ricostruire L’Aquila dov’era e com’era” – ha bisogno di precisazioni. Giova notare, infatti, che gli Aquilani in ognuna delle precedenti ricostruzioni – quelle seguite ai sismi del 1315, 1349, 1461 e 1703 – rifecero l’Aquila ‘dov’era’, ma mai ‘com’era’. Col terremoto del 1703, addirittura ne cambiarono l’intera morfologia medioevale con la veste stilistica corrente in quel frangente storico.
 

Mappa della Città di Aquila antecedente al terremoto del 1703. Incisione originale d'epoca all'acquaforte.


Come si sa, oggi, al suo quinto sconvolgimento tellurico ed alla sua quinta ricostruzione, la nostra amata Aquila si ritrovava abbastanza compromessa nella facies urbanistica ed architettonica ereditata. Già le amputazioni provocate dai citati terremoti e le soluzioni sommarie della ricostruzione settecentesca dovute all’esaurimento dei fondi – torri campanarie mozzate e private delle cuspidi; esterni di edifici religiosi lasciati nel loro nudo informe tessuto murario, privo d’intonaci e riquadrature; risistemazioni di comodo che nulla avevano della semplice estetica, ad esempio in Santa Maria di Roio, in San Marciano, in Santa Giusta e in altre chiese due-trecentesche; svariati caratteristici elementi architettonici medioevali quali portici, loggie, bifore, ecc., accecati e sfigurati – avevano ridotto l’originario alto valore del suo pregevolissimo patrimonio edilizio sia civile che religioso.

Il danno maggiore l’ha prodotto, nel Novecento, la disordinata urbanizzazione che è arrivata ad aggredire la città antica fin nel suo cuore fisico, sfigurandola con costruzioni arroganti del tutto fuori scala e forma rispetto a quella urbana d’ambito, e con la pretenziosa edilizia prolificata disordinatamente quale metastasi tumorale in più punti della cinta muraria trecentesca, investendola quasi a voler eliminarla come “elemento di ostacolo al proprio sviluppo” invece che come “importante risorsa per il proprio futuro”. Con tali balordi interventi si è insipientemente rovinata una delle realtà urbiche antiche più pregevoli del Centro Italia!

Stando così le cose non pare affatto che L’Aquila debba ricostruirsi “dov’era e com’era”, indiscriminatamente. Per quelli che amano davvero la città ed hanno il coraggio delle scelte, l’Aquila, se dev’essere ricostruita ‘dov’era’, sul che non si discute, non dovrebbe esserlo ‘com’era’ in ogni caso.

Essa dovrebbe esser recuperata, profittando dell’occasione più unica che rara delle distruzioni e danni causati dal sisma del 2009, oltre che nei suoi singoli monumenti, anche nel suo complesso: la città in quanto tale, cioè, comprendendo il tessuto edilizio connettivo e soprattutto, si badi bene, la trecentesca cinta muraria. È a quest’ultima, anzi, che nella generalità dei casi, e certamente all’Aquila, è affidato il compito di delineare, definendone i contorni, la fisionomia, il volto, nonché la visibilità panoramica di un centro storico. Il perimetro difensivo medioevale totalmente recuperato nelle sue mura, torri e Porte, emergenti da un verde anello di pomerio liberato dalle superfetazioni edilizie, ridarebbe la sua vera, compiuta identità ed unitarietà all’Aquila antica, estollendola sul colle, con la sua massa abitativa “in se compacta tota“, sopra la caotica urbanistica moderna. In un documento, che con me alcuni studiosi aquilani hanno chiesto di redigere all’arch. Maurizio D’Antonio ed hanno da poco presentato ai principali responsabili pubblici preposti alla ricostruzione, diciamo proprio questo. La cinta muraria, vi si legge, “splendidamente conservata fino a tempi recenti, era stata oggetto di una sistematica opera di devastazione, quasi a volerla cancellare del tutto. La si era resa di fatto inaccessibile per gran parte del suo sviluppo; case private si erano addossate ad essa senza alcun tipo di rispetto; le porte erano state quasi tutte chiuse e gli interventi della Soprintendenza di recupero e ripristino erano stati in parte vanificati da atti vandalici deturpanti”.

In particolare Porta Barete, che com’è noto era la principale della città, purtroppo “con il complesso di mura circostanti, fra cui una torre angolare, è stata oggetto di sventramento con la sistemazione ottocentesca di via Roma (cavalcavia) e di via XX Settembre, in una logica di apertura della città verso l’esterno, e di un successivo consistente rinterro sopra il quale si era costruito nel Novecento un gruppo di edifici. L’operazione di cancellazione della porta medievale principale della città è un episodio non certo frequente nella più generale storia dell’urbanistica, e denota ormai persa la sensibilità per la propria storia e i propri monumenti dovuta a particolari contingenti ragioni storiche”. Analoghe problematiche si pongono per il quartiere di S. Maria di Forfona o di Farfa, dove radicali modifiche ed urbanizzazione intensiva hanno vanificato l’originaria emergenza architettonica e paesaggistica della basilica di San Bernardino, e per la zona di Porta Leoni, nonché per il circuito difensivo in corrispondenza di Porta Bazzano, di Porta Napoli, di S.Andrea, della tragica Casa dello Studente.
 

Resti di Porta Barete (L'Aquila) e danneggiamenti in seguito al terremoto del 2009.


È pertanto necessario che prefiggendosi di porre rimedio alle incompiutezze della ricostruzione settecentesca e soprattutto agli scempi urbanistici novecenteschi, di cui sopra, nel ricostruire l’Aquila si
ponga mano ad una profonda riqualificazione volumetrica e formale dei caseggiati moderni che si è permesso deturpassero il tessuto abitativo storico ed aggredissero le citate Mura Urbiche, e poi si restituisca allo skyline edilizio cittadino la sagoma più dinamica che aveva anteriormente all’altro terremoto distruttore, quello del 2 febbraio 1703, rialzando le emergenze e le cuspidi allora crollate: insomma, la sagoma di città offerta stilizzata a stampa, dal Massonio, nel 1594, e prima ancora la veduta prospettica a volo d’uccello dipinta dal Cardone nel 1579 sul Gonfalone della Città.
 

Si tratta di una sfida ricostruttiva che fa davvero ‘tremare le vene e i polsi’, e la più disperata tra quelle sperimentate nella nostra storia. Disperata anzitutto per la difficoltà di ottenere la convergenza di tutte le parti in causa e di tutti gli interessi in gioco, politici ed amministrativi, pubblici e privati, civili ed ecclesiastici, tecnici e giuridici, culturali ed artistici, e che al momento, specialmente quelli politici, parrebbero inconciliabili. Disperata, inoltre, in quanto la ricostruzione di alcune parti di città – comprese ben tre delle 6 aree cosiddette ‘a breve’ – comporterà necessariamente le dette drastiche rivisitazioni volumetriche e morfologiche dell’edilizia novecentesca. Certamente agli amministratori di oggi, in una società che è più complessa rispetto alla settecentesca, si porranno maggiori difficoltà nell’esprimere, con i loro condizionanti interessi elettorali e particolari, determinazione e volontà politica per un’impresa epocale di tale portata, ed ai cittadini nell’accettarne i disagi e i ritardi conseguenti. Ma qui agli uni e agli altri gioverà ricordare, a loro paradigmatico esempio, quanto gli Aquilani del ‘200 seppero fare per la fondazione stessa della città: “Ficero la citade sollitici et uniti – scrisse il nostro Buccio di Ranallo – anni mille ducento cinquanta quatro giti”. Notate bene: “solliciti, et uniti! Perché gli Aquilani del ventunesimo secolo per amore della città non saprebbero ripetere quello che i loro avi seppero fare nel ‘200? Voglia il cielo che un altro cronista-poeta aquilano, in futuro, possa scrivere di questa quinta ricostruzione: “Re-ficero la citade solliciti et uniti, anni duemila e unidici giti”.

Il Gonfalone della città dell’Aquila, firmato dal manierista Paolo Cardone nel 1579,
è dipinto su seta rossa ed è alto 442 cm e largo 315 cm.
 

Disperata soprattutto, la sfida ricostruttiva in parola, perché ricostruendo la città non soltanto con sistemi anti-sismici efficaci e con materiali eco-sostenibili, ma altresì sanando le indicate infelici soluzioni architettoniche, urbanistiche od anche solo estetiche del passato, suppone probabilmente costi maggiori e tempi esecutivi più lunghi. Ebbene, a freddo esame, tali eventuali costi aggiuntivi devono esser considerati un autentico investimento. Non si tratta infatti, la ricostruzione qui vagheggiata, di un’esigenza estetica o di uno sfizio archeologico-storico. Si tratta della conditio sine qua non della stessa ripresa economica della città e del futuro sviluppo del territorio. 

È da almeno mezzo secolo che da parte degli esperti si ripete a tutti i livelli e in tutti i fori, istituzionali, politici, culturali, che la fondamentale ricchezza del nostro territorio è la vocazione turistica, grazie alle sue bellezze naturali e al suo peculiare patrimonio munumentale. Noi possiamo vivere soprattutto di turismo. Un centro storico, un monumento, una chiesa, rimessi nelle loro condizioni strutturali e formali ottimali, possono essere il futuro per le generazioni a venire. Di fatto, mai vi è stata volontà politica concreta a tradurre i proclami in programmi operativi efficaci, e del resto gli operatori economici aquilani sembra stiano solo adesso operando quel cambiamento di mentalità da un’economia di rendita ad una d’investimento, che li induca a volgere i loro interessi ed a spendere le proprie energie nell’unica possibile vera industria dell’Abruzzo montano: l’industria turistica, la sola adeguata alle caratteristiche locali, ecologicamente sicura, non suscettibile di delocalizzazione e che, se valorizzata e sviluppata come lo è in altre zone turistiche italiane di montagna ma come finora da noi non è stato fatto, costituirebbe la fonte di un indotto importante per l’occupazione, e dunque il vero volano della ripresa economica dell’intero Abruzzo interno.

Per questi motivi s’impone una ricostruzione “di qualità”. Occorre cioè che il nostro patrimonio monumentale, materia prima della nostra economia di base, nella quinta ricostruzione post-sismica della sua storia venga reso più ’competitivo’ e più ’appetibile’, in qualità formali, di quanto lo fosse prima del terremoto. Si rilegga ancora il nostro Buccio di Ranallo, che nella sua Cronica annota: “Gridaro tucti inseme: ’La cità fecciamo bella, Che nulla nello reame non se apparecchie ad ella!’. Una città, dunque, più ’bella’ possibile, che possegga una capacità d’attrazione, ed una ’competitività’ artistica, quindi anche turistica, rispetto alle altre città e regioni italiane, maggiore di quella anteriore al sisma, sicché unitamente alle ricchezze naturalistiche possa dare buona sostanza a detta industria. Se ci facessimo vincere emozionalmente dalle necessità immediate della ricostruzione, rischiamo, senza volerlo, di agire da egoisti imprevidenti, perché non ci renderemmo conto di star compromettendo il futuro occupazionale dei nostri figli e nipoti. Si tratta di una responsabilità storica che incombe sugli amministratori e i cittadini di oggi, della quale gli Aquilani del futuro chiederebbero rigoroso conto alla nostra generazione.

 “Non è questa ovviamente – conchiude il documento del gruppo di studiosi aquilani, ed anch’io conchiudo – non è questa la sede per offrire le possibili soluzioni tecniche e giuridiche che dovranno essere valutate e individuate caso per caso nel rispetto della normativa e che certamente potranno essere trovate salvaguardando i molteplici interessi in gioco e ricercando il totale accordo fra i soggetti interessati”. In una mia nuova pubblicazione, che spero veda la luce in autunno, offrirò alcune delle possibili esemplificazioni in merito, in rapporto sia all’urbanistica sia, in particolare, all’architetturta sacra.

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(*) Questa relazione di Mons. Orlando Antonini, Nunzio apostolico in Serbia, studioso d’architettura e storico, è stata letta il 28 marzo 2011 in un convegno tenuto all’Aquila presso la sede di Confindustria Abruzzo. La invio, con il consenso dell’Autore, per il suo notevole interesse scientifico e culturale e per il valore delle proposte avanzate per la ricostruzione. Di seguito  aggiungo una breve annotazione biografica dell’Autore.

Goffredo Palmerini

Mons. Orlando Antonini, 66 anni, è nato a Villa Sant'Angelo (L'Aquila). Ordinato sacerdote nel 1968, è stato parroco. Formazione diplomatica presso la Pontificia Accademia, ha fatto importanti esperienze come Segretario in diverse Nunziature apostoliche: Bangladesh, Madagascar, Siria, Olanda, Francia e Cile. Nel 1999 l'ordinazione episcopale e l'affidamento della Nunziatura apostolica in Zambia e Malawi, che ha retto fino al 2005, poi la Nunziatura apostolica in Paraguay, fino all’agosto 2009 e successivamente la Nunziatura apostolica in Serbia, a Belgrado, che attualmente regge. Scrittore, musicista e storico, mons. Antonini è uno tra i più insigni studiosi di architetture religiose e urbane in Abruzzo. Di capitale interesse scientifico le sue pubblicazioni, come  "L'architettura religiosa aquilana" volumi 1 e 2, "Manoscritti d'interesse celestiniano in Francia", "Chiese dell'Aquila", "Recupero e riqualificazione dei centri storici del Comitatus Aquilanus"  e "Villa Sant'Angelo e dintorni". Le sue pubblicazioni sull'architettura religiosa sono punto di riferimento imprescindibile per studiosi e storici dell'urbanesimo abruzzese. 

 

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En torno al tema de la reunión de hoy - L'Aquila como es y como será - me voy a referir únicamente a L'Aquila antigua contenida adentro de las murallas de la ciudad.

Acerca de su reconstrucción, como lo he expresado en varios artículos y ensayos, sigo convencido de que la fórmula que se impuso después del último sismo, "la reconstrucción de L'Aquila donde estaba y como era", necesita aclaraciones. Cabe señalar, en efecto, que en cada una de las reconstrucciones anteriores —las que siguieron a los terremotos de 1315, 1349, 1461 y 1703— los habitantes reconstruyeron la ciudad 'donde estaba', pero nunca 'como era'. Con el terremoto de 1703 incluso cambiaron totalmente su estilo medieval y lo substituyeron con la apariencia correspondiente a ese momento histórico.

Como ustedes saben, hoy, después de su quinto terremoto y ante su quinta reconstrucción, nuestra amada ciudad se encontraba ya bastante comprometida en lo que se refiere a sus características arquitectónicas y urbanísticas. Los daños provocados por los sismos anteriores y las soluciones de reconstrucción adoptadas en el siglo XVIII, dictadas por el agotamiento de los fondos disponibles —los campanarios recortados y sin cúspides; los exteriores de los edificios religiosos con paredes desnudas y sin acabados, yeso y adornos; algunos arreglos cómodos que no conservaron nada de la estética simple, por ejemplo, de Santa Maria di Roio, San Marciano, Santa Giusta y otras iglesias del siglo XIII y XIV y la desfiguración de elementos arquitectónicos típicos medievales como terrazas, balcones, ventanas de arco, etc.— habían reducido el valor original de sus activos más valiosos, tanto para edificios civiles como religiosos.

El daño mayor fue producido en el siglo XX por la urbanización desordenada que vino a atacar a la ciudad antigua hasta su corazón, desfigurándola con construcciones arrogantes totalmente fuera de escala en comparación con el área urbana preexistente, pretenciosamente esparcidas como metástasis tumorales en múltiples sitios al interior del perímetro de los muros del siglo XIV, atropellando, como queriéndolos eliminar "los elementos que obstaculizan su desarrollo" en vez de considerarlos "recursos importante para el futuro". Con estas absurdas intervenciones, se arruinó una de las más valiosas realidades urbanas antiguas del centro de Italia!

En estas circunstancias no parece que l'Aquila deba ser reconstruida "donde estaba y como era" en forma indiscriminada. Para los que verdaderamente aman a la ciudad y tien el valor para elegir, l'Aquila, aunque no se discute que deba ser reconstruida "donde estaba", no debería volver a ser "como era" en todos los casos.

Hay que recuperar —aprovechando la oportunidad más única que poco frecuente de la destrucción y daños causados ​​por el terremoto de 2009— más allá de sus monumentos individuales también su conjunto: la ciudad como tal, es decir, incluyendo el tejido conectivo de construcción y, especialmente, —fíjense bien—, los muros perimetrales del siglo XIV.

Este último elemento, de hecho, en la mayoría de los casos —y l'Aquila ciertamente no es la excepción— se encarga de delinear, definir los contornos y resaltar la fisonomía, el rostro y la visibilidad panorámica de un centro histórico.

La defensa perimetral totalmente recuperada con sus murallas medievales, torres y puertas, destacando sobre un anillo verde liberado de otras construcciones, restablecería la verdadera identidad y unidad de l'Aquila antigua, levantándola sobre la colina con su conjunto habitacional "in se compacta tota" por encima del caótico urbanismo moderno.

Afirmamos precisamente esto en un documento que fue redactado por el Arq. Maurizio d'Antonio a solicitud de algunos estudiosos de l'Aquila y mía y que fue presentados a los principales funcionarios públicos encargados de la reconstrucción.

Los muros perimetrales, afirma el escrito, «muy bien conservados, hasta hace poco, habían sido objeto de un trabajo sistemático de destrucción, casi pretendiendo borrarlos por completo. De hecho, se habían vuelto prácticamente inaccesibles en buena parte de su extensión. Casas particulares se apoyaban en ellos sin ningún tipo de respeto, casi todas las puertas habían sido cerradas y las acciones de la Superintendencia para su recuperación y rehabilitación se habían visto anuladas ​​en parte por actos destructivos de vandalismo».

En particular, la puerta Barete, que como se sabe era la principal de la ciudad, por desgracia "junto con los muros que la rodean, incluyendo una torre de esquina, fue objeto de demolición para acomodar en el siglo XIX la calle Roma (paso elevado) y Via XX Septiembre —en una lógica de apertura de la ciudad al exterior— y más tarde de un rellenado constante con tierra para construir en el siglo XX un grupo de edificios.

Es necesario, por tanto —tratando de remediar las carencias de la reconstrucción del siglo XVIII y, sobre todo, los vituperios del siglo XX arriba mencionados— que durante el proceso de reconstrucción de l'Aquila se lleve a cabo una profunda recalificación volumétrica y formal de los bloques de apartamentos modernos que se permitió que estropearan el tejido residencial histórico y que agredieran las ya descritas murallas de la ciudad y se devuelva a la silueta de la ciudad la forma más dinámica que poseía antes del penúltimo terremoto destructivo, él del 2 de febrero de 1703, volviendo a construir las torres y las cúspides que se derrumbaron en esa ocasión. En otras palabras, la forma de la ciudad estilizada de Salvatore Massonio en 1594 a partir de los masones en 1594, y antes la perspectiva a ojo de pintada por Cardone en 1579 en el estandarte de la Ciudad.

 

(orlando antonini / puntodincontro)

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